domenica 24 agosto 2014

Una Storia dimenticata: la battaglia di Bladensburg e l'occupazione di Washington D.C.

Il generale Robert Ross
Il 19 agosto 1814, nell'ambito della guerra anglo-americana del 1812-15, un contingente di quattromilatrecento veterani britannici agli ordini del generale Robert Ross prese terra nel Maryland, nei pressi di Benedicte, cittadina alla foce del fiume Patuxent. La Royal Navy già da un anno aveva il controllo effettivo delle acque della baia di Chesapeake, cosicché le operazioni di sbarco non incontrarono ostacoli. Il contingente era stato pensato per spostarsi rapidamente e disponeva di soli tre cannoni leggeri, ma compensava con ben sessanta batterie lanciarazzi, più facilmente trasportabili. L’esercito guidato da Ross era composto da quattro reggimenti di fanteria (il 4°, il 21°, il 44° e l’85°), uno di Royal Marines, uno di Marines coloniali (ex-schiavi liberati) e poco meno di trecento marinai. Si trattava interamente di veterani che avevano servito l’anno precedente in Europa sotto il Duca di Wellington, e lo stesso generale Ross si era fatto le ossa nella campagna appena conclusasi con la liberazione della Spagna dai francesi.
A Washington, nei palazzi del potere, allo sbarco seguirono momenti di concitazione. Il Segretario alla Guerra Armstrong non credeva veramente che l’obiettivo dell’attacco britannico fosse stato la capitale. Egli pensava piuttosto a Baltimora, città situata cinquanta chilometri a Nord-Est, che sarebbe stata certamente un obiettivo più significativo sia militarmente che economicamente. Aveva ragione a metà. Infatti gli ordini di Ross erano di marciare dapprima su Washington, e poi anche su Baltimora. Prima di tutto, gli inglesi erano intenzionati a mandare un messaggio all’America e al mondo. Per questo erano determinati a violare la città più simbolica: Washington D.C.

 La brigata britannica iniziò subito a risalire il corso del fiume Patuxent, distruggendo tutte le imbarcazioni che trovò lungo il cammino. Il 21 agosto, fu impegnata in una scaramuccia con alcuni miliziani del Maryland, e la notte seguente, dopo aver percorso circa sessanta chilometri tra paludi afose e miasmatiche, era ormai alle porte della capitale. Non c’erano forze americane significative tra gli uomini di Ross e il loro obiettivo, tanto che se il generale avesse proseguito la marcia, la mattina successiva sarebbe entrato in città senza trovare la benché minima opposizione. Invece si fermò per l’intera giornata del 23 agosto, per far riposare i suoi uomini e farli riprendere dal clima impossibile. Infatti le condizioni di caldo umido al limite della sopportabilità e la zona paludosa, avevano sfiancato molti soldati, appesantiti tra l’altro dall’equipaggiamento necessario. A causa della velocità con la quale era stata preparata l’invasione, la brigata non aveva sufficienti carri da trasporto, cosicché molti uomini erano stati costretti a trasportare un peso superiore al normale; pare addirittura che un paio di soldati collassarono a terra, morti.
Il comandante del decimo distretto militare americano (area nella quale ricadeva la capitale) era William Winder, un pavido ufficiale sovente tacciato di inettitudine dai posteri. Almeno aveva già avuto il battesimo del fuoco, poiché era stato catturato dagli inglesi sui Grandi Laghi, e restituito come da prassi nel corso di uno scambio di prigionieri. Egli inizialmente non sapeva se gli inglesi stessero puntando su Washington o su Baltimora cosicché, nel dubbio, rimase inattivo e perse tempo prezioso. Quando divenne chiaro che l’obiettivo più immediato era la capitale, Winder divise le forze in due colonne, in modo da presidiare i due possibili punti di accesso: quello meridionale e quello nord-orientale. Winder disponeva di forze regolari con il contagocce: appena trecento fanti e centoventi dragoni, che si trovavano a Washington per questioni legate più che altro al cerimoniale. Per difendere la città, fu quindi costretto a reclutare in tutta fretta una milizia tra i cittadini del Maryland. La popolazione rispose comunque con inatteso entusiasmo, ed in pochissimi giorni Winder riuscì ad armare circa seimila uomini, sebbene il bacino potenziale fosse di almeno il doppio. Inoltre, il contingente americano poteva contare su dieci cannoni di vario calibro, alcuni dei quali sottratti dalla difesa degli edifici cittadini più importanti. L’entusiasmo non mancava, e il terrore che si era diffuso tra gli abitanti della baia di Chesapeake fin dalle incursioni di Cockburn dell’anno precedente fu sufficiente a smuovere molti anche tra i più riluttanti. Tuttavia, determinazione e coraggio non sempre riescono a sopperire alla mancanza di preparazione e di addestramento.
E questo è ciò che avvenne alle porte di Washington. 

A mezzogiorno del 24 agosto 1814, una giornata scura e nuvolosa, il generale Ross, dopo aver sferrato un modesto diversivo verso Sud,  raggiunse Bladensburg, la porta d’accesso nord-orientale della città. In quel momento, gli inglesi erano ad appena sei miglia (nove chilometri) dalla Casa Bianca. Fu lì che Winder, prima di ritirarsi nelle retrovie in modo francamente disdicevole, aveva lasciato alle truppe americane l’ordine di “tenere la miglior posizione (…) e in caso di attacco resistere il più a lungo possibile”. Erano disposizioni che da sole trasudavano di drammaticità e di disperazione.
Comunque, la posizione degli inglesi non era del tutto favorevole poiché essi, per avanzare dal corso del Patuxent fin verso le linee americane, avrebbero dovuto attraversare il ramo orientale del fiume Potomac, scavalcato dal ponte di Bladensburg. Se fosse stato un comandante appena passabile, Winder si sarebbe assicurato di bruciarlo, ma a causa di un difetto di comunicazione tra lui e i suoi ufficiali, l’ordine non venne eseguito, e gli inglesi lo attraversarono senza problemi. Gli inesperti miliziani del Maryland, molti dei quali impugnavano un moschetto per la prima volta, si trovarono faccia a faccia con i veterani di Ross non appena questi ebbero superato il ponte.
Gli inglesi non persero tempo e caricarono subito il fianco sinistro. Poi investirono anche quello destro e, dopo averli entrambi scompaginati, attaccarono il centro dello schieramento nemico. Questo, attestato su alcune trincee poco profonde scavate in tutta fretta, fece fuoco sulla linea compatta delle giubbe rosse che marciava decisa in avanti. Un efficace fuoco di artiglieria supportò il tiro dei miliziani, ma i veterani inglesi, temprati dalla micidiale campagna condotta in Spagna, non si scomposero per qualche perdita, e continuarono a marciare con convinzione. A distanza di carica, i soldati di Ross innestarono finalmente le baionette, e assaltarono la linea americana provocando un fuggi-fuggi generale. Alcune salve di fucileria esplose sui fuggiaschi, bastarono a completare l’opera tra l’ilarità degli ufficiali britannici più anziani, i quali avevano persino scommesso su un esito del genere.
Quella di Bladensburg, fu senza dubbio una delle battaglie più ignobili della lunga storia militare americana. Per descriverla, sono ormai stati utilizzati tutti gli aggettivi più indecorosi; la calca e la foga di mettersi in salvo, fecero sì che diversi americani feriti furono calpestati dagli stessi commilitoni. Secondo Charles Bowe, un afroamericano che combatté quel giorno per il Paese del quale sentiva di essere parte, i miliziani corsero via “come un gregge di pecore”.
Artiglieri americani a Bladensburg
Ufficialmente, tra gli americani si contarono solo ventisei caduti, ma è molto probabile che nella confusione del momento le perdite non furono tutte registrate. Daniel Walker Howe, storico contemporaneo, scrisse che “si trattò della più grande disgrazia mai patita dai colori americani” e addirittura “l’episodio più umiliante della storia americana”.  Probabilmente questo non è lontano dal vero. Ad aggravare la situazione, Winder non aveva lasciato disposizioni precise su cosa fare in caso di ritirata, cosicché i superstiti si dispersero senza avere un luogo di raccolta preciso, e moltissimi ritornarono alle loro famiglie.
La battaglia si era conclusa in poco più di un’ora. Anche se gli inglesi a loro volta avevano patito una sessantina di perdite, soprattutto a causa dell’intenso fuoco di artiglieria, ora nulla più si frapponeva tra la spedizione punitiva degli uomini di Sua Maestà e la capitale degli Stati Uniti.

L’OCCUPAZIONE DELLA CAPITALE. Giunta notizia del disastro, a Washington si diffuse il panico. Chiunque fosse in grado di farlo, lasciò le proprie abitazioni sparpagliandosi nelle campagne, a piedi, a cavallo, e persino famiglie intere in carrozza. Anche il Presidente Madison, che aveva assistito alla battaglia da un’altura, dovette lasciare in gran fretta la Casa Bianca, costretto ad una evacuazione d’emergenza che si è ripetuta solo una seconda volta nella storia americana: l’11 settembre 2001, centottantasette anni dopo, con protagonista George W. Bush.
Prima di allontanarsi dalla capitale con tutto il governo, Madison ebbe premura di far rimuovere tutte le carte più importanti e i documenti di rilevanza nazionale dalle sedi governative, tra i quali le copie originali della Dichiarazione d’Indipendenza e della Costituzione. La sera stessa della battaglia, le avanguardie britanniche entrarono nella nuovissima città, la cui costruzione era stata ultimata solo tredici anni prima. All’inizio del XIX secolo, Washington D.C. aveva solo poche migliaia di abitanti (cinquemila quando venne completata nel 1801, forse saliti a ottomila nel 1814), la maggior parte dei quali la abbandonarono nelle ore intercorse tra la battaglia e l’ingresso delle avanguardie. Tutti gli altri, si barricarono nelle abitazioni, sprangando porte e finestre. Proprio a ridosso di uno dei primi edifici della città, all’angolo tra Maryland e Constitution Avenue, si verificò l’unico scontro a fuoco dell’occupazione, quando alcuni miliziani spararono da una finestra sui soldati in marcia, facendo una vittima e qualche ferito. Per rappresaglia, il palazzo venne immediatamente dato alle fiamme, ma è probabile che i cecchini fuggirono subito dopo gli spari.

Ben presto, Ross e i suoi reparti sfilarono su Pennsylvania Avenue al seguito della Union Jack. Si affacciarono ai cancelli della Casa Bianca appena evacuata e ne violarono il perimetro. La capitale degli Stati Uniti aveva solo pochi anni di vita, ma il suo valore altamente simbolico era già ben impresso nella coscienza degli americani. Come già detto, le intenzioni dell’esercito invasore non erano tanto quelle di occupare stabilmente Washington, ritenuto un obiettivo strategicamente trascurabile, quanto piuttosto quelle di “creare un effetto politico devastante” (Roger Morriss).
Quel 24 agosto 1814, fu senza dubbio una delle giornate più umilianti mai vissute dagli Stati Uniti; certamente la più umiliante fino a quel momento. In quelle ore di terrore e di incertezza, quando l’indipendenza stessa della Nazione – conquistata con il sangue dalla generazione precedente – sembrava appesa ad un filo, spiccarono la calma e la fermezza della First Lady, descritta dalle cronache del tempo come serena e fiduciosa, in mezzo ad un mare di panico. Secondo diverse voci diffusesi in seguito, fu proprio Dolly Madison in persona a rimuovere la pesante cornice del dipinto di George Washington che campeggiava nella residenza presidenziale per meglio metterlo in salvo. Tuttavia questa versione, circolata a lungo, è in realtà falsa, poiché Paul Jennings, uno schiavo ed un testimone oculare, più tardi riferì che “questo è totalmente falso. Non avrebbe avuto il tempo di farlo; sarebbe stata necessaria una scala a pioli per tirarlo giù (il dipinto ndr.). Tutto ciò che lei riuscì a mettere in salvo fu l’argenteria”. Jennings aggiunse che il dipinto, effettivamente messo in salvo, fu tirato giù da “John Susé (un francese che faceva il portiere e che è ancora vivente [al tempo in cui Jennings rilasciò questa dichiarazione ndr.]) e Magraw, il giardiniere del Presidente”. Lo stesso testimone aggiunse che “quando i britannici arrivarono (alla Casa Bianca) mangiarono la cena e bevvero i vini che avevo preparato per il Presidente”.
Poi i soldati portarono via diversi oggetti di valore, economico ma non solo, tra i quali anche le lettere personali che il Presidente aveva indirizzato alla moglie al tempo del fidanzamento. Quella notte stessa, dopo il bivacco, appiccarono il fuoco alla residenza presidenziale, aggiungendo del combustibile in modo che l’incendio non si esaurisse brevemente. L’ordine di incendiarla fu dato dal generale Ross in persona, il quale eseguiva una direttiva proveniente dal governatore generale del British Territory, George Prévost. Il gesto, oltre che a sfregiare i simboli più importanti del Paese nemico, era da intendere come rappresaglia all’incendio che le milizie newyorkesi avevano appiccato a York l’anno precedente. Secondo le leggi di guerra vigenti al tempo, non era illegale distruggere edifici pubblici di una Nazione nemica, purché venissero prese le misure adeguate ad evitare danni alla popolazione civile, cosa che a quanto pare Prévost si raccomandò di fare. Stessa sorte toccò, a stretto giro, a molti edifici che fino al giorno precedente erano stati i centri nevralgici della vita politica americana, compresa la sede del Congresso (Capitol Hill), del Dipartimento della Guerra e di quello del Tesoro.
Poche ore dopo la disfatta di Bladensburg, Washington D.C, era in fiamme!

La Casa Bianca in fiamme
 I danni prodotti agli arredi interni degli edifici incendiati furono pressoché totali, ma le spesse mura e una forte pioggia che iniziò a tamburellare quella notte stessa, permisero almeno di salvare le pareti esterne e i muri portanti. Diversi documenti andarono perduti, e la libreria del Congresso fu completamente bruciata. Secondo alcuni, le fiamme furono visibili lungo tutto il corso del fiume Patuxent, fino anche a Baltimora, ma in realtà la cosa appare poco probabile.   
Il giorno successivo, anche l’ammiraglio Cockburn volle entrare in città e, giunto di fronte alla sede del “National Intelligencer” (un quotidiano pubblicato nella capitale tra il 1801 e il 1867), ordinò di incendiarla, risentito dal fatto che poco tempo prima il giornale lo aveva definito “il Ruffiano”. A quel punto, pare che alcune donne residenti nell’edificio contiguo lo avessero implorato di ritirare l’ordine, temendo che le fiamme potessero estendersi alle loro abitazioni. Cockburn, convinto dalle argomentazioni, ordinò allora di smontare la costruzione “mattone per mattone”.
A partire dal pomeriggio del 25 agosto 1814 – unico giorno della storia nel quale Washington fu invasa da truppe straniere (un’altra capitale americana, Filadelfia, era stata invasa nel 1777) – , le condizioni meteorologiche continuarono a peggiorare, e gli incendi finirono per esaurirsi. A quel punto, le truppe inglesi furono loro malgrado coinvolte in due episodi drammatici che avvennero nel giro di poche ore, dando più tardi la sensazione agli americani che un ‘Fato’ luttuoso si fosse abbattuto sugli indesiderati occupanti. Il giorno precedente, evacuando la città, gli americani avevano lasciato 150 barili di polvere da sparo nei sotterranei di Fort McNair, probabilmente per dimenticanza. Gli inglesi, avendoli scovati ma non potendo trasportarli, si adoperarono per farli brillare. Ma durante l’operazione qualcosa andò storto e una deflagrazione devastante distrusse gran parte del forte, uccidendo almeno trenta soldati. Subito dopo quest’evento, quando i soccorsi erano ancora in pieno svolgimento, un gigantesco uragano con raffiche di vento e fulmini si abbatté sulla città. Alcuni alberi furono sradicati, molti tetti scoperchiati, e persino un tornado iniziò a formarsi nella campagna circostante e a dirigersi verso il centro cittadino. Diverse persone furono ferite, sia tra i soldati che tra i civili, e forse qualcuno restò ucciso. George Robert Glelg era un soldato britannico tra quelli che entrarono in città, il quale successivamente descrisse l’evento con queste parole: “i lampi e i bagliori (del temporale) sembravano rivaleggiare con le fiamme che ardevano dai tetti degli edifici incendiati, mentre i tuoni coprivano il rumore dei muri che si sgretolavano”. Tuttavia eventi estremi di questo tipo sono relativamente frequenti alla fine di agosto lungo la costa atlantica degli Stati Uniti e, anche se di solito tendono a verificarsi un po’ più a Sud, la capitale americana ne è stata vittima diverse volte.
Fatto sta che gli inglesi si ritirarono nella tempesta, cercando rifugio sulle navi ancorate nel Potomac, alcune delle quali vennero seriamente danneggiate. In questo modo, lasciarono di fatto la città dopo sole ventisei ore dall’ingresso delle avanguardie. Successivamente, la leggenda popolare americana, rafforzata dalla piega successiva presa dagli eventi, ha ammantato le sciagure di quel giorno con un’aurea di predestinazione, come se una sorta di ‘punizione divina’ avesse fatto giustizia dello scempio perpetrato.



In ogni caso, già il 25 agosto la brevissima occupazione e la peggiore giornata mai vissuta da Washington D.C. era alle spalle, e a poco a poco la vita riprese: la guerra continuava, certo, ma gli sfollati nelle campagne iniziarono a tornare nelle loro abitazioni (o in ciò che ne rimaneva) e il Presidente stesso, debilitato nel già gracile fisico da tre notti trascorse all’aperto, rientrò alla Casa Bianca il 27 agosto, accompagnato dalla moglie Dolly.
Come nuova capitale provvisoria nella quale trasferire il governo, fu proposta la città di Cincinnati, nell’Ohio, lontano da altre possibili incursioni britanniche. Ma Madison rifiutò categoricamente di trasferirsi, e fece riunire tutti i ministri nella sede generale delle Poste, uno dei pochi edifici pubblici rimasti in piedi. Il segnale non avrebbe potuto essere più chiaro. La ricostruzione della Casa Bianca iniziò al termine della guerra, e fu completata in due anni con l’aggiunta del famoso portico, in tempo per l’insediamento di James Monroe, il nuovo Presidente.

Gran parte degli oggetti trafugati quel giorno andarono purtroppo perduti quasi subito: tre mesi più tardi, la notte del 24 novembre 1814, nel corso di una tempesta, la nave HMS Fantome diretta in Inghilterra affondò al largo della Nuova Scozia, trasportando con sé gran parte dei valori (e rafforzando la cosiddetta ‘maledizione di Washington!’). Tuttavia, alcuni oggetti furono recuperati nel corso del tempo. Il fatto più curioso avvenne nel 1939, quando un anziano e distinto signore inglese che volle rimanere nell’anonimato, si presentò dal Presidente Franklin D. Roosevelt con una scatola di gioielli, asserendo di volerla restituire dopo che il bisnonno l’aveva trafugata dalla Casa Bianca nel 1814. Prima dell’incendio, inoltre, la residenza era nota semplicemente come ‘Casa del Presidente’ o ‘Palazzo del Presidente’ e comunque non aveva un nome ufficiale. L’espressione ‘Casa Bianca’ iniziò a circolare tra gli operai durante i lavori di ricostruzione, ed ebbe subito tantissimo successo. Fu adottata ufficialmente nel 1901. 

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