Il generale Robert Ross |
Il 19 agosto 1814, nell'ambito della guerra anglo-americana del 1812-15, un contingente di quattromilatrecento veterani britannici agli ordini del generale Robert Ross prese terra nel Maryland, nei pressi di Benedicte, cittadina alla foce del
fiume Patuxent. La Royal Navy già da un anno aveva il controllo effettivo delle
acque della baia di Chesapeake, cosicché le operazioni di sbarco non incontrarono ostacoli.
Il contingente era stato pensato per spostarsi rapidamente e disponeva di soli
tre cannoni leggeri, ma compensava
con ben sessanta batterie lanciarazzi, più facilmente
trasportabili. L’esercito guidato da Ross era composto da quattro reggimenti
di fanteria (il 4°, il 21°, il 44° e l’85°), uno di Royal Marines, uno di Marines coloniali (ex-schiavi liberati) e poco meno di trecento marinai.
Si trattava interamente di veterani che avevano servito l’anno precedente in
Europa sotto il Duca di Wellington, e lo stesso generale Ross si era fatto le
ossa nella campagna appena conclusasi con la liberazione della Spagna dai
francesi.
A Washington, nei
palazzi del potere, allo sbarco seguirono momenti di concitazione. Il
Segretario alla Guerra Armstrong non credeva veramente che l’obiettivo
dell’attacco britannico fosse stato la capitale. Egli pensava piuttosto a
Baltimora, città situata cinquanta chilometri a Nord-Est, che sarebbe stata
certamente un obiettivo più significativo sia militarmente che economicamente.
Aveva ragione a metà. Infatti gli ordini di Ross erano di marciare dapprima su
Washington, e poi anche su Baltimora. Prima di tutto, gli inglesi erano
intenzionati a mandare un messaggio all’America e al mondo. Per questo erano
determinati a violare la città più simbolica: Washington D.C.
Il comandante del
decimo distretto militare americano (area nella quale ricadeva la capitale) era
William Winder, un pavido ufficiale sovente tacciato di inettitudine dai
posteri. Almeno aveva già avuto il battesimo del fuoco, poiché era stato catturato
dagli inglesi sui Grandi Laghi, e restituito come da prassi nel corso di uno
scambio di prigionieri. Egli inizialmente non sapeva se gli inglesi stessero
puntando su Washington o su Baltimora cosicché, nel dubbio, rimase inattivo e
perse tempo prezioso. Quando divenne chiaro che l’obiettivo più immediato era
la capitale, Winder divise le forze in due colonne, in modo da presidiare i due
possibili punti di accesso: quello meridionale e quello nord-orientale. Winder
disponeva di forze regolari con il contagocce: appena trecento fanti e
centoventi dragoni, che si trovavano a Washington per questioni legate più che
altro al cerimoniale. Per difendere la città, fu quindi costretto a reclutare
in tutta fretta una milizia tra i cittadini del Maryland. La popolazione
rispose comunque con inatteso entusiasmo, ed in pochissimi giorni Winder riuscì
ad armare circa seimila uomini, sebbene il bacino potenziale fosse di almeno il
doppio. Inoltre, il contingente americano poteva contare su dieci cannoni di
vario calibro, alcuni dei quali sottratti dalla difesa degli edifici cittadini
più importanti. L’entusiasmo non mancava, e il terrore che si era diffuso tra
gli abitanti della baia di Chesapeake fin dalle incursioni di Cockburn dell’anno
precedente fu sufficiente a smuovere molti anche tra i più riluttanti. Tuttavia,
determinazione e coraggio non sempre riescono a sopperire alla mancanza di
preparazione e di addestramento.
E questo è ciò che
avvenne alle porte di Washington.
A mezzogiorno del
24 agosto 1814, una giornata scura e nuvolosa, il generale Ross, dopo aver
sferrato un modesto diversivo verso Sud,
raggiunse Bladensburg, la porta d’accesso nord-orientale della città. In
quel momento, gli inglesi erano ad appena sei miglia (nove chilometri) dalla
Casa Bianca. Fu lì che Winder, prima di ritirarsi nelle retrovie in modo
francamente disdicevole, aveva lasciato alle truppe americane l’ordine di
“tenere la miglior posizione (…) e in caso di attacco resistere il più a lungo
possibile”. Erano disposizioni che da sole trasudavano di drammaticità e di
disperazione.
Comunque, la
posizione degli inglesi non era del tutto favorevole poiché essi, per avanzare
dal corso del Patuxent fin verso le linee americane, avrebbero dovuto
attraversare il ramo orientale del fiume Potomac, scavalcato dal ponte di
Bladensburg. Se fosse stato un comandante appena passabile, Winder si sarebbe
assicurato di bruciarlo, ma a causa di un difetto di comunicazione tra lui e i
suoi ufficiali, l’ordine non venne eseguito, e gli inglesi lo attraversarono
senza problemi. Gli inesperti miliziani del Maryland, molti dei quali
impugnavano un moschetto per la prima volta, si trovarono faccia a faccia con i
veterani di Ross non appena questi ebbero superato il ponte.
Gli inglesi non
persero tempo e caricarono subito il fianco sinistro. Poi investirono anche
quello destro e, dopo averli entrambi scompaginati, attaccarono il centro dello
schieramento nemico. Questo, attestato su alcune trincee poco profonde scavate
in tutta fretta, fece fuoco sulla linea compatta delle giubbe rosse che
marciava decisa in avanti. Un efficace fuoco di artiglieria supportò il tiro
dei miliziani, ma i veterani inglesi, temprati dalla micidiale campagna
condotta in Spagna, non si scomposero per qualche perdita, e continuarono a marciare
con convinzione. A distanza di carica, i soldati di Ross innestarono finalmente
le baionette, e assaltarono la linea americana provocando un fuggi-fuggi
generale. Alcune salve di fucileria esplose sui fuggiaschi, bastarono a
completare l’opera tra l’ilarità degli ufficiali britannici più anziani, i
quali avevano persino scommesso su un esito del genere.
Quella di
Bladensburg, fu senza dubbio una delle battaglie più ignobili della lunga storia
militare americana. Per descriverla, sono ormai stati utilizzati tutti gli
aggettivi più indecorosi; la calca e la foga di mettersi in salvo, fecero sì
che diversi americani feriti furono calpestati dagli stessi commilitoni. Secondo
Charles Bowe, un afroamericano che combatté quel giorno per il Paese del quale
sentiva di essere parte, i miliziani corsero via “come un gregge di pecore”.
Artiglieri americani a Bladensburg |
Ufficialmente, tra
gli americani si contarono solo ventisei caduti, ma è molto probabile che nella
confusione del momento le perdite non furono tutte registrate. Daniel Walker
Howe, storico contemporaneo, scrisse che “si trattò della più grande disgrazia
mai patita dai colori americani” e addirittura “l’episodio più umiliante della
storia americana”. Probabilmente questo
non è lontano dal vero. Ad aggravare la situazione, Winder non aveva lasciato
disposizioni precise su cosa fare in caso di ritirata, cosicché i superstiti si
dispersero senza avere un luogo di raccolta preciso, e moltissimi ritornarono
alle loro famiglie.
La battaglia si era
conclusa in poco più di un’ora. Anche se gli inglesi a loro volta avevano
patito una sessantina di perdite, soprattutto a causa dell’intenso fuoco di
artiglieria, ora nulla più si frapponeva tra la spedizione punitiva degli
uomini di Sua Maestà e la capitale degli Stati Uniti.
L’OCCUPAZIONE DELLA
CAPITALE. Giunta notizia del disastro, a Washington si diffuse il panico. Chiunque
fosse in grado di farlo, lasciò le proprie abitazioni sparpagliandosi nelle
campagne, a piedi, a cavallo, e persino famiglie intere in carrozza. Anche il
Presidente Madison, che aveva assistito alla battaglia da un’altura, dovette
lasciare in gran fretta la Casa Bianca ,
costretto ad una evacuazione d’emergenza che si è ripetuta solo una seconda
volta nella storia americana: l’11 settembre 2001, centottantasette anni dopo, con
protagonista George W. Bush.
Prima di
allontanarsi dalla capitale con tutto il governo, Madison ebbe premura di far
rimuovere tutte le carte più importanti e i documenti di rilevanza nazionale
dalle sedi governative, tra i quali le copie originali della Dichiarazione
d’Indipendenza e della Costituzione. La sera stessa della battaglia, le
avanguardie britanniche entrarono nella nuovissima città, la cui costruzione
era stata ultimata solo tredici anni prima. All’inizio del XIX secolo,
Washington D.C. aveva solo poche migliaia di abitanti (cinquemila quando venne
completata nel 1801, forse saliti a ottomila nel 1814), la maggior parte dei
quali la abbandonarono nelle ore intercorse tra la battaglia e l’ingresso delle
avanguardie. Tutti gli altri, si barricarono nelle abitazioni, sprangando porte
e finestre. Proprio a ridosso di uno dei primi edifici della città, all’angolo
tra Maryland e Constitution Avenue, si verificò l’unico scontro a fuoco
dell’occupazione, quando alcuni miliziani spararono da una finestra sui soldati
in marcia, facendo una vittima e qualche ferito. Per rappresaglia, il palazzo
venne immediatamente dato alle fiamme, ma è probabile che i cecchini fuggirono
subito dopo gli spari.
Ben presto, Ross e i
suoi reparti sfilarono su Pennsylvania Avenue al seguito della Union Jack. Si
affacciarono ai cancelli della Casa Bianca appena evacuata e ne violarono il
perimetro. La capitale degli Stati Uniti aveva solo pochi anni di vita, ma il
suo valore altamente simbolico era già ben impresso nella coscienza degli
americani. Come già detto, le intenzioni dell’esercito invasore non erano tanto
quelle di occupare stabilmente Washington, ritenuto un obiettivo
strategicamente trascurabile, quanto piuttosto quelle di “creare un effetto
politico devastante” (Roger Morriss).
Quel 24 agosto 1814,
fu senza dubbio una delle giornate più umilianti mai vissute dagli Stati Uniti;
certamente la più umiliante fino a quel momento. In quelle ore di terrore e di
incertezza, quando l’indipendenza stessa della Nazione – conquistata con il
sangue dalla generazione precedente – sembrava appesa ad un filo, spiccarono la
calma e la fermezza della First Lady, descritta dalle cronache del tempo come
serena e fiduciosa, in mezzo ad un mare di panico. Secondo diverse voci
diffusesi in seguito, fu proprio Dolly Madison in persona a rimuovere la
pesante cornice del dipinto di George Washington che campeggiava nella
residenza presidenziale per meglio metterlo in salvo. Tuttavia questa versione,
circolata a lungo, è in realtà falsa, poiché Paul Jennings, uno schiavo ed un
testimone oculare, più tardi riferì che “questo è totalmente falso. Non avrebbe
avuto il tempo di farlo; sarebbe stata necessaria una scala a pioli per tirarlo
giù (il dipinto ndr.). Tutto ciò che lei riuscì a mettere in salvo fu
l’argenteria”. Jennings aggiunse che il dipinto, effettivamente messo in salvo,
fu tirato giù da “John Susé (un francese che faceva il portiere e che è ancora
vivente [al tempo in cui Jennings rilasciò questa dichiarazione ndr.]) e
Magraw, il giardiniere del Presidente”. Lo stesso testimone aggiunse che
“quando i britannici arrivarono (alla Casa Bianca) mangiarono la cena e bevvero
i vini che avevo preparato per il Presidente”.
Poi i soldati
portarono via diversi oggetti di valore, economico ma non solo, tra i quali
anche le lettere personali che il Presidente aveva indirizzato alla moglie al
tempo del fidanzamento. Quella notte stessa, dopo il bivacco, appiccarono il
fuoco alla residenza presidenziale, aggiungendo del combustibile in modo che
l’incendio non si esaurisse brevemente. L’ordine di incendiarla fu dato dal generale
Ross in persona, il quale eseguiva una direttiva proveniente dal governatore
generale del British Territory, George Prévost. Il gesto, oltre che a sfregiare
i simboli più importanti del Paese nemico, era da intendere come rappresaglia
all’incendio che le milizie newyorkesi avevano appiccato a York l’anno
precedente. Secondo le leggi di guerra vigenti al tempo, non era illegale
distruggere edifici pubblici di una Nazione nemica, purché venissero prese le
misure adeguate ad evitare danni alla popolazione civile, cosa che a quanto
pare Prévost si raccomandò di fare. Stessa sorte toccò, a stretto giro, a molti
edifici che fino al giorno precedente erano stati i centri nevralgici della
vita politica americana, compresa la sede del Congresso (Capitol Hill), del Dipartimento della Guerra e di quello del Tesoro.
Poche ore dopo la
disfatta di Bladensburg, Washington D.C, era in fiamme!
La Casa Bianca in fiamme |
I danni prodotti agli arredi interni degli
edifici incendiati furono pressoché totali, ma le spesse mura e una forte
pioggia che iniziò a tamburellare quella notte stessa, permisero almeno di
salvare le pareti esterne e i muri portanti. Diversi documenti andarono perduti,
e la libreria del Congresso fu completamente bruciata. Secondo alcuni, le
fiamme furono visibili lungo tutto il corso del fiume Patuxent, fino anche a
Baltimora, ma in realtà la cosa appare poco probabile.
Il giorno
successivo, anche l’ammiraglio Cockburn volle entrare in
città e, giunto di fronte alla sede del “National
Intelligencer” (un quotidiano pubblicato nella capitale tra il 1801 e il
1867), ordinò di incendiarla, risentito dal fatto che poco tempo prima il
giornale lo aveva definito “il Ruffiano”. A quel punto, pare che alcune donne residenti
nell’edificio contiguo lo avessero implorato di ritirare l’ordine, temendo che
le fiamme potessero estendersi alle loro abitazioni. Cockburn, convinto dalle
argomentazioni, ordinò allora di smontare la costruzione “mattone per mattone”.
A partire dal
pomeriggio del 25 agosto 1814 – unico giorno della storia nel quale Washington
fu invasa da truppe straniere (un’altra capitale americana, Filadelfia, era
stata invasa nel 1777) – , le condizioni meteorologiche continuarono a
peggiorare, e gli incendi finirono per esaurirsi. A quel punto, le truppe
inglesi furono loro malgrado coinvolte in due episodi drammatici che avvennero
nel giro di poche ore, dando più tardi la sensazione agli americani che un
‘Fato’ luttuoso si fosse abbattuto sugli indesiderati occupanti. Il giorno
precedente, evacuando la città, gli americani avevano lasciato 150 barili di
polvere da sparo nei sotterranei di Fort McNair, probabilmente per
dimenticanza. Gli inglesi, avendoli scovati ma non potendo trasportarli, si
adoperarono per farli brillare. Ma durante l’operazione qualcosa andò storto e
una deflagrazione devastante distrusse gran parte del forte, uccidendo almeno
trenta soldati. Subito dopo quest’evento, quando i soccorsi erano ancora in pieno
svolgimento, un gigantesco uragano con raffiche di vento e fulmini si abbatté
sulla città. Alcuni alberi furono sradicati, molti tetti scoperchiati, e persino
un tornado iniziò a formarsi nella campagna circostante e a dirigersi verso il
centro cittadino. Diverse persone furono ferite, sia tra i soldati che tra i
civili, e forse qualcuno restò ucciso. George Robert Glelg era un soldato
britannico tra quelli che entrarono in città, il quale successivamente descrisse
l’evento con queste parole: “i lampi e i bagliori (del temporale) sembravano
rivaleggiare con le fiamme che ardevano dai tetti degli edifici incendiati,
mentre i tuoni coprivano il rumore dei muri che si sgretolavano”. Tuttavia
eventi estremi di questo tipo sono relativamente frequenti alla fine di agosto
lungo la costa atlantica degli Stati Uniti e, anche se di solito tendono a verificarsi
un po’ più a Sud, la capitale americana ne è stata vittima diverse volte.
Fatto sta che gli
inglesi si ritirarono nella tempesta, cercando rifugio sulle navi ancorate nel
Potomac, alcune delle quali vennero seriamente danneggiate. In questo modo,
lasciarono di fatto la città dopo sole ventisei ore dall’ingresso delle
avanguardie. Successivamente, la leggenda popolare americana, rafforzata dalla
piega successiva presa dagli eventi, ha ammantato le sciagure di quel giorno con
un’aurea di predestinazione, come se una sorta di ‘punizione divina’ avesse
fatto giustizia dello scempio perpetrato.
In ogni caso, già
il 25 agosto la brevissima occupazione e la peggiore giornata mai vissuta da
Washington D.C. era alle spalle, e a poco a poco la vita riprese: la guerra
continuava, certo, ma gli sfollati nelle campagne iniziarono a tornare nelle
loro abitazioni (o in ciò che ne rimaneva) e il Presidente stesso, debilitato
nel già gracile fisico da tre notti trascorse all’aperto, rientrò alla Casa
Bianca il 27 agosto, accompagnato dalla moglie Dolly.
Come nuova capitale
provvisoria nella quale trasferire il governo, fu proposta la città di
Cincinnati, nell’Ohio, lontano da altre possibili incursioni britanniche. Ma
Madison rifiutò categoricamente di trasferirsi, e fece riunire tutti i ministri
nella sede generale delle Poste, uno dei pochi edifici pubblici rimasti in
piedi. Il segnale non avrebbe potuto essere più chiaro. La ricostruzione della
Casa Bianca iniziò al termine della guerra, e fu completata in due anni con
l’aggiunta del famoso portico, in tempo per l’insediamento di James Monroe, il
nuovo Presidente.
Gran parte degli
oggetti trafugati quel giorno andarono purtroppo perduti quasi subito: tre mesi
più tardi, la notte del 24 novembre 1814, nel corso di una tempesta, la nave HMS Fantome diretta in Inghilterra affondò
al largo della Nuova Scozia, trasportando con sé gran parte dei valori (e
rafforzando la cosiddetta ‘maledizione di Washington!’). Tuttavia, alcuni
oggetti furono recuperati nel corso del tempo. Il fatto più curioso avvenne nel
1939, quando un anziano e distinto signore inglese che volle rimanere
nell’anonimato, si presentò dal Presidente Franklin D. Roosevelt con una
scatola di gioielli, asserendo di volerla restituire dopo che il bisnonno
l’aveva trafugata dalla Casa Bianca nel 1814. Prima dell’incendio, inoltre, la
residenza era nota semplicemente come ‘Casa del Presidente’ o ‘Palazzo del
Presidente’ e comunque non aveva un nome ufficiale. L’espressione ‘Casa Bianca’
iniziò a circolare tra gli operai durante i lavori di ricostruzione, ed ebbe
subito tantissimo successo. Fu adottata ufficialmente nel 1901.
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